I 7 peccati (vizi) capitali

I “sette vizi capitali”, noti anche come “peccati capitali”, sono una classificazione dei vizi all’interno degli insegnamenti cristiani

I sette vizi capitali, noti anche come peccati capitali, sono una classificazione dei vizi all’interno degli insegnamenti cristiani. Pur non essendo menzionati direttamente nella Bibbia, trovano paralleli con le sette cose che Dio detesta nel Libro dei Proverbi. Questi comportamenti o abitudini sono classificati come vizi capitali perché danno origine ad altre immoralità.

I sette vizi capitali sono la superbia, l’avarizia, l’ira, l’invidia, la lussuria, la gola e l’accidia, e si oppongono alle virtù corrispondenti, ovvero le tre virtù teologali e le quattro virtù cardinali. Questi vizi, derivati dal termine latino “vĭtĭum” che significa mancanza o difetto, distruggono l’anima umana, contrapponendosi alle virtù che ne promuovono la crescita. Sono definiti “capitali” perché sono considerati i più gravi e fondamentali, riguardando la profondità della natura umana. Non sono peccati in sé, ma cause che portano al peccato.

La classificazione dei vizi capitali è stata introdotta dai Padri del deserto, in particolare da Evagrio Pontico. Il suo allievo Giovanni Cassiano portò questa classificazione in Europa attraverso il suo libro “Le istituzioni cenobitiche”, dove divenne fondamentale per le pratiche confessionali cattoliche. Questo sistema è documentato nei manuali penitenziali e in opere letterarie come “Il racconto del parroco” nei “Racconti di Canterbury” di Geoffrey Chaucer e il “Purgatorio” di Dante Alighieri. La Chiesa pone particolare enfasi sull’orgoglio, considerato la radice di tutti i peccati perché allontana l’anima da Dio, e sull’avidità.

I sette peccati capitali sono trattati nei trattati teologici e raffigurati nelle opere d’arte delle chiese cattoliche. Essi, insieme ai peccati contro lo Spirito Santo e ai peccati che gridano vendetta al Cielo, sono insegnati nelle tradizioni cristiane occidentali come comportamenti da evitare.

Storia

La descrizione dei vizi capitali risale ad Aristotele, che li chiamava “abiti del male“. Come le virtù, anche i vizi derivano dalla ripetizione di azioni, creando nel soggetto un “abito” che lo inclina verso una certa abitudine. Tuttavia, mentre le virtù promuovono la crescita interiore e spirituale, i vizi la distruggono.

Il primo Cristianesimo analizzò questi vizi grazie ai primi monaci, tra cui Evagrio Pontico e Giovanni Cassiano. Evagrio fu il primo a classificare i vizi capitali e a suggerire i mezzi per combatterli. Identificò otto “spiriti o demoni o pensieri malvagi” (logismoi): gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e superbia. Nell’Antirrhetikos, Evagrio propone un passo biblico per contrastare ciascuno dei demoni dei vizi e le loro opere.

In seguito, Gregorio Magno accorpò la tristezza come effetto dell’accidia o dell’invidia, e la vanagloria venne inclusa nella superbia. Gli altri vizi rimasero invariati (ira, lussuria, avarizia, gola) e l’invidia fu aggiunta successivamente.

Durante l’Età dei Lumi, la distinzione tra vizi e virtù perse importanza, poiché si pensava che anche i vizi potessero contribuire allo sviluppo materiale della società. Dopo l’Illuminismo, i vizi continuarono a essere trattati in alcune opere di Kant, che li vedeva come espressioni della tipologia umana o del carattere. Nell’Ottocento, l’Antropologia pragmatica di Kant e altri grandi trattati fecero dei vizi un argomento di grande interesse tra filosofia morale, psicologia umana e teologia.

I vizi capitali nella dottrina cattolica

Nella dottrina cattolica, i vizi capitali sono considerati inclinazioni morali negative che possono portare l’uomo a commettere altri peccati e allontanarlo da Dio. Questi vizi sono sette e sono spesso riassunti con l’acronimo “saligia,” che riunisce le iniziali di ciascun vizio in latino.

La superbia è il primo dei vizi capitali e consiste nella convinzione esagerata della propria superiorità rispetto agli altri. Chi è superbo tende a sentirsi migliore degli altri e a disprezzare le norme e le leggi, nonché il rispetto per gli altri.

L’avarizia rappresenta il desiderio insaziabile di accumulare ricchezze e beni materiali. Questa ossessione per il possesso deriva dall’antico termine latino “avaritia,” che è legato all’avidità e alla brama di ottenere sempre di più, senza mai sentirsi soddisfatti.

La lussuria si riferisce al desiderio sfrenato di piacere sessuale, perseguito esclusivamente per il piacere stesso. Questo vizio coinvolge un’incontrollata sensualità e carnalità, e può portare a comportamenti come la fornicazione, l’adulterio e altre azioni sessuali considerate peccaminose.

L’invidia è il sentimento di dispiacere e risentimento che si prova quando qualcun altro possiede un bene o una qualità che si desidererebbe per sé. L’invidioso non solo si sente infelice per non avere ciò che un altro possiede, ma può anche arrivare a desiderare che l’altro perda quel bene.

La gola è l’eccessiva indulgenza nel cibo e nelle bevande. Non si tratta solo di mangiare o bere oltre il necessario, ma di farlo per puro piacere e ingordigia, superando i limiti naturali imposti dal corpo.

L’ira è un’esplosione di rabbia violenta e incontrollata. Chi cede all’ira manifesta un’avversione profonda verso qualcosa o qualcuno, spesso con un desiderio di vendetta.

L’accidia, infine, è una forma di pigrizia morale e spirituale. Si manifesta come un’inerzia nel compiere opere di bene, un senso di torpore malinconico e indolenza, che porta la persona a non agire e a rifiutare le responsabilità.

Nel Medioevo, la Chiesa includeva anche la tristezza tra i vizi capitali, perché considerata una forma di disprezzo per le opere di Dio. Tuttavia, nel tempo, la tristezza venne associata all’accidia, mentre la vanagloria, un altro vizio originariamente separato, fu unita alla superbia.

Questi vizi sono rappresentati anche nella letteratura, come nella “Divina Commedia” di Dante Alighieri, dove sono puniti nell’Inferno e purificati nel Purgatorio. Le tre fiere incontrate da Dante nella selva oscura, all’inizio del poema, simboleggiano diversi vizi che ostacolano l’anima nel cammino verso la salvezza.

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